Intervista alla dottoressa Barbara Menzaghi, Dirigente Medico UOC di Malattie Infettive, ASST Valle Olona.
In base ai dati ufficiali riportati dall’OMS, nel mondo ci sono 325 milioni di persone affette da epatite B e C, e il numero dei relativi decessi si attesta, ogni anno, a circa 1 milioni e 400 mila.
Per quanto concerne la situazione in Italia, inoltre, le stime dell’ISS sottolineano un calo dell’incidenza sia dell’epatite B che di quella C, nonostante questi processi virali siano, a tutt’oggi, la seconda principale malattia infettiva killer, dopo la TBC. E le persone che contraggono questa malattia si infettano 9 volte in più rispetto all’HIV.
“Entrambe le tipologie possono rimanere “silenti”, ovvero asintomatiche, per diversi anni, e se non vengono trattate nel modo corretto, con il tempo è possibile che degenerino in cirrosi epatica o epatocarcinomi”, spiega la dottoressa Menzaghi, che prosegue “la sfida cui ci troviamo davanti per eradicare queste patologie sta nel fatto che molte persone convivono per anni con l’epatite, ma non sanno di esserne affetti. Ecco perché lo screening è così importante: permette infatti di ottenere una diagnosi precoce che consente di salvare vite”.
Come viene trasmetto il virus dell’epatite B e quali sono i sintomi?
“La trasmissione avviene o tramite rapporti sessuali o per mezzo di sangue infetto. In generale all’esordio possono non manifestarsi sintomi eclatanti; in una percentuale di casi si ha la manifestazione acuta incremento della transaminasi, stanchezza, feci che diventano chiare, urine che diventano scure e si manifesta l’ittero. Spesso, tuttavia, i riscontri sono puramente occasionali: si tratta di persone che hanno fatto dei prelievi ematici, per altri motivi, non coinvolti da fase acuta (magari hanno avuto solo astenia) e scoprono di avere i marcatori positivi. I pazienti che cronicizzano dopo sei mesi presentano ancora la persistenza del virus e non hanno sviluppato la presenza di anticorpi; quindi il virus continua per anni a infiammare il fegato”.
Quali sono le terapie attualmente a disposizione per la cura dell’epatite B cronica e quali i passi avanti fatti dalla ricerca scientifica?
“I pazienti che cronicizzano sono quelli che necessitano di una terapia che, oggi, è a base di farmaci antivirali. Mentre negli anni ’90 l’unica terapia a disposizione era a base di interferone, che però nell’epatite B aveva una percentuale di risposta bassa a fronte di effetti collaterali significativi e importanti, oggi la farmacologia permette al paziente di convivere con il virus (che viene messo “a dormire”). I farmaci non fanno guarire, ma riducono l’evoluzione della patologia verso complicanze come la cirrosi e l’epatocarcinoma. La ricerca sta facendo grossi passi avanti, ma occorreranno ulteriori anni per arrivare ad una tipologia di farmaco che non metta “semplicemente” il virus a dormire, ma che lo eradichi del tutto”.
Come si contrae il virus dell’epatite C e quali gli effetti dell’HCV sulla salute generale del soggetto affetto?
“Rispetto al virus dell’epatite B, quello C si trasmette un po’ meno per via sessuale, mentre è più frequente la trasmissione ematica, o via parenterale inapparente, cioè per mezzo di poche gocce di sangue. E’ anch’esso un virus molto resistente, per cui si trasmette facilmente, ed è difficile che si presenti una fase acuta. E’ invece più semplice che la malattia passi silente, senza fasi acute. Anche in questo caso, i sintomi si palesano nel momento in cui la malattia è presente in stadio avanzato. Molto importante è stato il programma di sensibilizzazione e monitoraggio di realtà come SERD, carceri, istituti psichiatrici, sino ai Medici di Medicina Generale, che hanno preso maggior coscienza del problema, soprattutto per quanto attiene alcune aree specifiche della popolazione. Nonostante ciò, siamo ancora all’inizio, alla punta dell’iceberg. Lo screening andrebbe esteso e reso più capillare, così da raggiungere i dati che noi specialisti auspichiamo”.
Se un tempo l’epatite C era considerata di difficile cura, quali sono invece le prospettive attuali?
“Dal 2015 si è verificata una vera e propria rivoluzione, che è quella che auspichiamo anche per l’epatite B. Siamo in presenza di farmaci DAA, antivirali diretti, ben tollerati, che vengono assunti per bocca; la terapia oggi è di breve durata, circa 2-3 mesi, non presenta effetti collaterali e l’efficacia si attesta a oltre il 95%. La storia dell’epatite C e del suo trattamento sono stati, quindi, completamente rivoluzionati”.
Quali le casistiche di pazienti trattati presso il P.O. di Busto Arsizio?
“Ad oggi, abbiamo trattato con i nuovi farmaci oltre 2.000 pazienti, sia interni che provenienti da altre realtà quali il SERD e il carcere, o da altri presidi ospedalieri. Inizialmente, come da indicazioni, abbiamo trattato pazienti affetti da cirrosi epatica, oltre a pazienti coinfetti da HIV e HCV. Dopo il 2017, abbiamo trattato tutti i pazienti, indipendentemente dalle comorbidità”.
Per ciò che attiene l’epatite Delta, infine, come viene diagnosticata, quali i sintomi e le cure?
“L’epatite Delta è un “parassita” dell’epatite B, con bassa incidenza. Esiste solo se quella B è già presente, perché da sola non riesce a replicarsi. Anche nei pazienti con epatite B, comunque, l’incidenza è estremamente bassa. Nei nostri pazienti, la percentuale di chi è affetto anche dalla variante Delta è irrisoria (parliamo di uno storico di 3-4 pazienti in tutto). Alcune volte si tratta di soggetti stranieri, di provenienza asiatica come Pakistan e Bangladesh, o di ex tossicodipendenti. Lo screening per la diagnosi viene fatto nella ricerca o degli anticorpi o dell’antigene Delta e, anche in questo caso, non tutti i pazienti necessitano di essere trattati. Alcuni non sviluppano sintomi né incremento delle transaminasi: spesse volte, è sufficiente trattare il paziente per il virus di tipo B, per “combattere” anche il tipo Delta. Esiste una percentuale molto bassa di pazienti che sviluppa, invece, una replicazione attiva dell’HDV, quindi del virus Delta, e per questi pazienti, da pochissimo, esiste un nuovo farmaco. Si tratta del Bulevirtide che funziona da “entry inhibitor” e che richiede una somministrazione sottocutanea da effettuarsi giornalmente, per ora, per circa 12 mesi. L’unico effetto collaterale registrato, ad oggi, è l’incremento degli acidi biliari, che causa prurito”.